Il design è strategico, ma se non lo racconti così non verrà mai trattato come tale
In molte aziende il design è ancora visto come qualcosa che “arriva dopo”: una questione estetica, utile a rifinire un’interfaccia o a dare un tocco visivo ai materiali di comunicazione. E così, quando si parla di strategia, di processi, di scelte organizzative, i designer restano ai margini.
Chi fa design lo sa: il valore che possiamo portare è molto più profondo. Eppure, quante volte ci troviamo di fronte a muri alti due metri quando proviamo a farlo capire? Ci lamentiamo perché nessuno ci ascolta, perché “non capiscono cos’è davvero il design”, ma troppo spesso dimentichiamo un dettaglio fondamentale: siamo noi a doverci far capire.
Il design è un modo di pensare, una lente per leggere i problemi e facilitare le decisioni. Ma se continuiamo a parlare solo tra di noi, con il nostro lessico chiuso e autoreferenziale, non è il sistema che ci esclude: siamo noi che ci autoescludiamo.
Essere designer non è un ruolo, è una responsabilità. Rifugiarsi nel proprio gergo tecnico o nelle proprie metodologie rischia di diventare un alibi. Quando ci identifichiamo troppo con i nostri strumenti, perdiamo la capacità di entrare in relazione. Il valore non sta nei deliverable, ma nella capacità di generare comprensione, orientamento, trasformazione.
Perché le organizzazioni fanno fatica ad ascoltare i designer
Molti team dirigenti sono cresciuti in contesti in cui il design non era parte delle decisioni strategiche. Per loro, design significa estetica, brand, packaging. Questo condizionamento culturale influenza anche il modo in cui recepiscono una proposta progettuale: si aspettano qualcosa di “bello”, non di utile. Quando sentono parlare di wireframe o usability test, li interpretano come dettagli operativi, non come leve per decidere meglio.
Il risultato è che il design viene coinvolto tardi, quando ormai è tempo di rifinire e non più di cambiare. Ma se vogliamo che il nostro lavoro abbia un impatto reale, dobbiamo essere noi a spostare il punto d’ingresso nella conversazione.
Il linguaggio che usi decide quanto valore ti viene riconosciuto
Il linguaggio è una leva invisibile, ma potentissima. Puoi essere un designer eccellente, ma se chi decide non capisce cosa fai, quel valore non esiste. Ogni funzione aziendale ha il proprio vocabolario. HR parla di engagement e clima interno. Il CFO di ROI e costi. Il team prodotto di velocity e priorità. I designer di insight, user journey, friction. Il problema non è usare parole diverse, ma non cercare di trovarne una comune.
Tradurre non significa semplificare. Significa entrare nel contesto dell’altro: capire cosa lo preoccupa, cosa considera prioritario, quali metriche usa. Significa usare parole che costruiscono fiducia, che generano ascolto, che creano ponti tra mondi diversi. Un progettista non può più limitarsi a proporre soluzioni: deve anche saperle raccontare in modo che risuonino con i frame di chi prende decisioni.
Durante un workshop con un cliente del settore finance, abbiamo messo attorno allo stesso tavolo designer, marketing, prodotto e operations. Ognuno parlava una lingua diversa. I designer raccontavano flow e prototipi, il marketing chiedeva se avrebbe aumentato le vendite, operations voleva sapere quanto sarebbe costato. Abbiamo fermato tutto e chiesto: “Descrivete il progetto in base agli impatti sul business, sulle persone e sull’operatività.” Il linguaggio è cambiato. Il design ha smesso di essere una funzione e è diventato un modo per pensare insieme.
Quando il design parla, ma nessuno lo sente
Ogni giorno si prendono decisioni che impattano su prodotti e servizi digitali. I designer parlano, ma spesso verso l’interno. Spiegano il processo, i passaggi, le tecniche. Ma non si chiedono abbastanza: cosa vuole sapere davvero chi mi ascolta? Se racconti il tuo lavoro solo per farti capire da altri designer, stai parlando a una stanza già convinta. Se vuoi essere ascoltato da chi decide, devi usare le sue parole, non le tue.
Un decision maker non vuole sapere quanti test hai fatto. Vuole sapere che hai ridotto l’abbandono del 25%, velocizzato l’onboarding, migliorato la conversione. Se parli solo delle fasi, confondi. Se parli degli impatti, convinci.
Se vuoi essere ascoltato, cambia il modo in cui ti fai ascoltare
Il modo in cui racconti un’idea ne determina la percezione strategica. Anche la proposta più solida può passare inosservata se non risponde alle domande giuste. Non quelle del designer. Ma quelle del business. Per questo è fondamentale imparare ad ascoltare prima di parlare. Osserva quali parole ricorrono nelle riunioni. Quali sono le preoccupazioni dei tuoi interlocutori. Cosa considerano “importante” o “urgente”.
Quando presenti un progetto, sposta il focus dal processo all’effetto. Non dire che hai fatto A/B test. Di’ che hai testato due versioni e scelto quella che migliora del 18% la conversione. Non raccontare quanto sei stato bravo, racconta perché è stato utile. La precisione non si sacrifica. Si traduce.
Tre cose che puoi iniziare a fare subito
- Ascolta prima di parlare. In ogni riunione, osserva il linguaggio che usano gli altri team: cosa ritengono importante, come formulano i problemi, quali metriche citano. Comprendere il contesto è il primo passo per farti ascoltare.
- Parla di impatti, non di fasi. Non raccontare cosa hai fatto, ma cosa hai risolto. Non dire che hai fatto test: spiega che hai ottimizzato un flusso che ora converte il 25% in più. L’impatto crea consenso. Il processo no.
- Adatta il tuo linguaggio. Non rinunciare alla profondità, ma scegli parole che risuonano con chi hai di fronte. Un manager non vuole un vocabolario tecnico: vuole capire se quello che proponi è utile, scalabile, sostenibile.
Il design come connettore tra silos organizzativi
In molte aziende ogni funzione lavora per obiettivi separati, con strumenti e metriche diverse. Questo genera silos che rallentano la collaborazione. Il design, per natura, è trasversale: mette in connessione persone, bisogni e visioni. Ma perché questa capacità emerga, serve che il design sia riconosciuto come tale. E perché sia riconosciuto, deve farsi comprendere.
Un designer che sa parlare con il marketing, con la tecnologia, con l’amministrazione, non è “fuori ruolo”. È un moltiplicatore di valore. Il design può e deve diventare una funzione connettiva, capace di far dialogare mondi diversi attraverso un linguaggio che li attraversi tutti.
Chi guida davvero il cambiamento non pretende di essere capito: si fa capire
Non è solo responsabilità dei designer imparare a farsi ascoltare. Anche i manager hanno un ruolo fondamentale nel cambiare la cultura aziendale. Un manager che chiede “quale impatto ha questa soluzione sul cliente?” non sta solo cercando una risposta: sta costruendo un ponte.
Ma se aspetti che il sistema cambi da solo, resterai fuori. Chi guida davvero il cambiamento non pretende di essere capito: si fa capire. Se vuoi portare il design nei luoghi in cui si decide, inizia a farti spazio nel linguaggio. Chiedi cosa è importante per l’altro. Racconta il tuo lavoro a partire da lì.
Conclusione
Cambiare linguaggio non significa svendere il design. Significa farlo emergere. Farlo entrare nei luoghi dove si decide. Nei contesti dove si costruisce la direzione di un’azienda. Dove si valuta il futuro. Se vuoi che il design venga preso sul serio, smetti di chiedere il permesso. Inizia a parlare la lingua di chi decide.
E chiediti: qual è il primo termine che potresti sostituire oggi per far emergere davvero il tuo valore come designer con chi ti ascolta?
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