Qualche settimana fa ho avuto il privilegio di moderare un workshop insieme a Rosalba Giuffrida, Group Product Manager di Miro, e Sauro Cesaretti, presidente di Universal Access, durante una giornata di confronto dedicata a progettazione e intelligenza artificiale.
Non era un panel accademico né un talk di tendenza: era un laboratorio vero, dove designer, ricercatori e professionisti hanno esplorato con esempi, dubbi e curiosità cosa significa sperimentare con l’AI nel processo di progettazione, soprattutto quando parliamo di accessibilità.
L’AI come esperimento di consapevolezza
Nel corso del workshop mi sono accorta di una cosa: ogni volta che un designer dialoga con un sistema di intelligenza artificiale, in realtà sta parlando con sé stesso.
Ogni prompt rivela il modo in cui pensiamo, la nostra capacità di inquadrare un contesto, di dare priorità, di tradurre una visione in istruzioni. L’AI, in questo senso, diventa uno specchio: ci costringe a esplicitare logiche che spesso diamo per scontate.
Non è (ancora) uno strumento che progetta al posto nostro, ma un’occasione per vedere come progettiamo davvero: dove siamo precisi, dove semplifichiamo, dove smettiamo di ascoltare.
Molti dei partecipanti hanno ammesso che usare l’AI in modo consapevole non è semplice: è necessario possedere una competenza metaprogettuale, la capacità di osservare il proprio modo di pensare mentre si costruisce. È lì che il design incontra il suo valore più alto: non nel produrre, ma nel far emergere domande migliori.
Accessibilità e AI: il rischio dell’automazione cieca
Quando con Sauro abbiamo toccato il tema dell’accessibilità, è emersa con forza una riflessione: l’AI può essere un alleato, ma anche un rischio enorme se la usiamo senza criterio progettuale.
Un modello può generare codice semanticamente corretto, ma non per questo accessibile. Può suggerire testi, colori o layout che “funzionano”, ma non necessariamente per tutti.
L’accessibilità non è un output che si ottiene premendo “enter”: è un’intenzione che si traduce in scelte progettuali, dati di addestramento, linguaggi, metriche.
Sauro lo ha detto con grande lucidità: “L’AI può imparare a parlare di accessibilità solo se chi la guida sa cosa significa davvero includere.”
Questo vale per tutto il design. Se i nostri modelli vengono nutriti di bias, anche i risultati lo saranno. Se l’AI impara da processi non inclusivi, continuerà a replicarli con efficienza, ma senza coscienza.
Ecco perché la responsabilità del designer oggi non è più solo usare l’AI, ma addestrarla al pensiero inclusivo.
L’AI non sostituisce il design, lo mette alla prova.
Durante il confronto con Rosalba è emerso un punto che mi porto dietro da giorni: sperimentare con l’intelligenza artificiale non significa delegare, ma rimettere in discussione il modo in cui prendiamo decisioni.
Ogni generazione automatica, ogni suggerimento, ogni valutazione dell’AI è un test implicito della nostra capacità di giudizio. Ci obbliga a distinguere ciò che è utile da ciò che è solo nuovo, ciò che è efficiente da ciò che è sensato. In questo senso, l’AI non riduce il ruolo del design: lo espande.
Ci costringe a costruire cornici etiche, criteri di validazione, processi trasparenti — elementi che troppo spesso restano fuori dal perimetro dei progetti.
Credo che il vero valore del design strategico, oggi, sia proprio questo: creare spazi di pensiero dove tecnologia e umanità possano incontrarsi senza annullarsi a vicenda.
Non serve decidere se l’AI sia “buona” o “cattiva”: serve imparare a usarla per capire meglio noi stessi.
La progettazione come responsabilità condivisa
Alla fine del workshop, un pensiero era condiviso tra molti: l’AI non sta sostituendo i designer, ma li sta costringendo a crescere. Ci obbliga a formalizzare ciò che prima era intuitivo, a comunicare con maggiore chiarezza, a progettare in modo più sistemico.
Ma soprattutto, ci ricorda che ogni innovazione deve restare leggibile dalle persone.
E se non lo è, non è innovazione: è rumore.
Forse è proprio questo il senso della sperimentazione con l’AI. Non accelerare, ma rallentare il pensiero. Non produrre di più, ma progettare meglio.
Non sostituire l’intelligenza umana, ma imparare a collaborare con quella artificiale per costruire mondi più accessibili, sensati e umani.
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