“Abbiamo rinnovato la nostra offerta, ma in azienda lavoriamo ancora come dieci anni fa e ogni giorno rincorriamo noi stessi.”
Non è una frase isolata, me la sono sentita dire spesso, e non da aziende in difficoltà.
Parliamo di imprese che hanno mercato, che hanno clienti e fatturato. Il punto non è quello. Il punto è che il modello di business è cambiato ma l’organizzazione è rimasta la stessa, come se il modo di lavorare potesse reggere all’infinito, anche se il contesto attorno è completamente diverso.
Quando il business evolve ma l’azienda resta indietro
Immaginiamo una media impresa manifatturiera, circa 80 persone, che produce macchinari per il packaging. Per anni si è mossa solo su commessa, costruendo impianti complessi per pochi grandi clienti, con tempi lunghi e un controllo centralizzato su tutto.
Poi il mercato cambia: cresce la richiesta di macchine modulari, più veloci da produrre, personalizzabili, con un’assistenza continua.
L’azienda decide di aprirsi anche a questo segmento, di ampliare la gamma e guardare ai mercati esteri. La scelta è giusta: più clienti, margini migliori, meno dipendenza da pochi ordini.
Ma dentro non cambia nulla.
- L’ufficio tecnico viene sommerso di richieste e si blocca.
- La produzione continua a ragionare “a progetto” invece che in logica industriale.
- Il service post-vendita è improvvisato.
- L’amministrazione rincorre numeri e ordini con file Excel che non parlano tra loro.
E così i clienti iniziano a lamentarsi, i reparti si danno colpe a vicenda, i margini si assottigliano e l’imprenditore diventa l’unico punto di snodo, con tutte le decisioni sulle sue spalle.
Perché non basta ridisegnare l’organigramma
In questi casi la reazione tipica è “ridisegniamo ruoli e procedure”, magari con un consulente che porta un bell’organigramma nuovo di zecca.
Ma chi lavora sa bene che le cose non cambiano così: il modello più elegante resta carta, se le persone che devono usarlo non ci si riconoscono. Non è un caso se, come dice McKinsey, il 70% dei programmi di cambiamento fallisce per motivi culturali e non tecnici.
E allora il punto non è fare un disegno migliore, ma costruirlo insieme a chi vive i problemi tutti i giorni. Questo è il senso del co-design: non si “comunica” un cambiamento dall’alto, lo si costruisce con chi sta in produzione, con chi segue i clienti, con chi tiene insieme i numeri. E spesso sono proprio loro ad avere le risposte più concrete.
Il ruolo dell’imprenditore
L’imprenditore in tutto questo non sparisce, anzi. Ma non può più essere quello che decide tutto. Deve diventare la guida che tiene la visione, che ascolta, che fa sintesi. Non è semplice, ma è l’unico modo per far emergere il sapere diffuso e alleggerire la pressione dal vertice.
Quando questo approccio funziona, i segnali si vedono presto: nei primi tre mesi c’è più chiarezza nei ruoli, i flussi decisionali iniziano a girare meglio, arrivano feedback veri dal campo e si prendono decisioni che evitano conflitti inutili. Non è teoria, è pratica che alleggerisce la direzione e rimette l’azienda in movimento.
La domanda vera
Ripensare il modello organizzativo non è questione di slide né di slogan motivazionali. È questione di creare le condizioni giuste: ascolto, fiducia, partecipazione. Molte aziende hanno già dentro le soluzioni, ma le persone non sono messe in condizione di contribuire davvero.
In fondo significa una cosa: smettere di rincorrere l’azienda di ieri e iniziare a costruire consapevolmente quella di domani.
👉 E allora la domanda è: il tuo modello organizzativo è davvero allineato alla direzione in cui vuoi portare il business?
Se non hai un sì convinto, forse è il momento di fermarti e ripensarlo insieme a chi ci lavora ogni giorno.
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